Ringrazio questa folla di essere qui questa sera, mi ha fatto molto piacere, anche per Francesco, che abbia tanti, tanti amici, quindi, e stimatori, anche, credo. Come al solito inizio con due note biografiche su Francesco.

Francesco Barasciutti è un figlio d’arte e, quindi, ha iniziato molto presto a maneggiare macchine fotografiche e a scattare fotografie. Quando nel 1987 perde il padre, si trova costretto a fare una scelta: intraprendere il mestiere di ottico o continuare l’attività di famiglia. E Francesco diciassettenne sceglie la fotografia. Da allora gran parte del suo lavoro, quello che gli permette di vivere, è al servizio dell’arte. Fotografie di sculture e opere in vetro, intese come veri e propri ritratti; tra i cataloghi firmati Barasciutti, quello per La Biennale del Vetro ed il volume su Carlo Scarpa Architetto del vetro. In questi anni ha realizzato anche diversi calendari e ha collaborato con la rivista giapponese GQ con servizi fotografici dedicati ad illustri artisti, architetti, attori e stilisti. Da qualche anno partecipa alle attività del Circolo fotografico La Gondola e tiene dei corsi fotografici presso al Scuola Internazionale della Grafica. Innamorato da sempre del bianco e nero e del ritratto, Francesco per molti anni ha dedicato al sua ricerca a quest’arte, fotografando molti personaggi del mondo della cultura, dell’arte e dello spettacolo. Il primo a finire nel suo studio è stato l’indimenticabile Ugo Tognazzi. Nel 1998, come miglior fotografo ritrattista d’Italia, ha vinto il premio Kodak. E poi, poi c’è Venezia, una scoperta più recente sulla quale sta lavorando da qualche anno.

La città, la sua città, non era mai stata al centro degli interessi fotografici di Francesco. Adesso si è fatta protagonista. Ma arrivare a Venezia, dopo anni passati a fotografare volti non è stato facile. Per quasi otto anni è stata una pallida appagante clausura, il rassicurante rifugio dello studio, l’eremo dedicato al culto del ritratto, dove celebrare la certezza della posa, il controllo della luce, una tecnica che si andava sempre più ad affinare, un integralismo fotografico che non ammetteva altro, oltre quelle quattro pareti così protettive, oltre quei lineamenti da far propri. Poi questa fede, così incrollabile, ha cominciato a vacillare, lo studio s’è fatto stretto, la regola troppo pesante ed il monaco ritrattista ha aperto timidamente la porta, fuori, ad attenderlo c’era Venezia: la città percorsa tutti i giorni, ma così estranea, un territorio sconosciuto, ancora tutto da esplorare.

Ritrovarsi all’aria aperta, per Francesco il perfezionista, credo sia stato un forte impatto; passare dal paesaggio “volto” al paesaggio “città”, dalla faccia alla facciata, da una luce alle tante luci, dall’intimità all’esteriorità, non è stato facile, soprattutto quando il soggetto che ti ritrovi di fronte si chiama Venezia, la modella più fotografata al mondo. Ma Francesco non s’è scoraggiato, con una Leica in mano s’è messo in cammino, spalancando gli occhi dinanzi ad una città da rivedere, riscoprire, riassaporare, riconquistando il gusto della libertà, lasciandosi andare alle situazioni, più disponibile e curioso.

Esercizi veneziani, così Francesco ama definire queste immagini, intendendole forse come percorso di conoscenza; esercizio mentale e pure fisico; mettere alla prova capacità ed esperienza dinanzi ad un soggetto nuovo, stimolante, difficile, prevaricante. Il ritrattista ha messo in campo la sua tecnica, i suoi occhi, la sua sensibilità, la sua lieve poesia, ha visto la città quotidiana, la gente, il lavoro, ma anche la Venezia che si offre in tutto il suo splendore. Dall’alba al colore della sera, luci, stagioni, condizioni meteorologiche diverse, una città attraversata ritrovando il piacere di stupirsi, emozionarsi, immagarsi, sorridere. Una realtà catturata dal colore del bianco e nero, dalla sua forza trasfigurante, dalla sua preziosità.

La lux aeterna delle Zattere o dello Squero di S. Trovaso. Ed è pace, perfezione, armonia, come i primi accenni di oscurità lungo la Fondamenta di Montin. E poi i pontili, i vaporetti: luoghi di incontro e di attesa da dove osservare la città, le sue architetture, i suoi moti, la sua gente, magari attraverso un gioco di vetri. Ancora inquadrature, fotogrammi, momenti: l’umanità di un cane guardiano di una calle, il passaggio di due carrozzine nel sole, la quotidianità, la normalità, che si fanno incontro. E poi la città che lavora, che scarica e carica merci sotto una furiosa nevicata ed il cristo della carne tra due ladroni, che si chiamano “papà Umberto” e “Susi”. Venezia con i suoi gesti di sempre nella tempesta e nella nebbia, che trova nuova forza narrativa e simbolica. Situazioni colte al volo, come quel ragazzo sorpreso dall’acqua alta e dall’obiettivo in una Calle Vallaresso fatta di cristallo: un’immagine di cronaca cittadina che diventa altro, altrove.

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Venezia secondo Francesco Barasciutti senza trucchi, né inganni. Quel che ha visto attraverso l’obiettivo è qui, in queste immagini. Venezia così com’è e come si trasforma, quando dietro la macchina fotografica ci stanno finezza, sentimento, rigore, sapienza tecnica.

Ogni tanto nell’eremo dello studio Francesco ci torna, non ha rinnegato il verbo del ritratto, ma Venezia gli ha aperto gli occhi, gli orizzonti, lo ha portato a vedere e confrontarsi con la realtà in modo diverso, senza rigidità, né limitazioni, la città lo ha cambiato e ha arricchito la sua arte fotografica. Lui l’ha ricambiata con queste immagini, così diverse, serene, affettuose, magiche, intense.

Credo che uscire dallo studio ne sia valsa proprio la pena, per Francesco, per Venezia e per noi spettatori.

Emanuele Horodniceanu, 18 Aprile 2002
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Roberto Ballarin per Il Gazzettino di Venezia 18-04-2002

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